A chi fa bene la mafia

Chi non salta un mafioso è. Quasi come allo stadio. D’un tratto è indignazione generale. E tutti puntano il dito.

A scatenare l’ondata pro legalità è quel discolo di Buonofiglio che, sul suo AltrePagine, pubblica la lettera di un’anonima signora che ricorda (con affetto o stima, addirittura?) un presunto affiliato ucciso dalla ‘ndrangheta. Un tipo di scelta editoriale che scandalizza tanti: ai mafiosi non si dia spazio.

Giusto. La crociata contro la ‘ndrangheta va condivisa senza se e senza ma. Tuttavia… proprio mentre in tanti si scandalizzano per l’uscita giornalistica del momento, a chi riflette con calma sul fenomeno viene spontanea una domanda: questo fremito di legalità è una costante del vivere quotidiano della cosiddetta gente perbene locale?

Risposta secca: no. Questo territorio vive di troppi silenzi e di diffuse omertà. Le regole sono un optional in ogni settore del vivere sociale. È facile censurare le imprese malavitose di capi e capetti morti ammazzati ma col piffero che si alzi la voce, contro costoro, quando sono in vita. Anzi: troppa gente (pure “al di sopra di ogni sospetto”) non ne nasconde la frequentazione.

La vox populi racconta, che ne so, di un bar gestito da prestanomi? E tutti a farci il letto in quel locale. Una palestra pare sia di proprietà di un presunto affiliato? Poco male, pure qualche tutore dell’ordine ci si iscrive in pace di Dio. E della scelta (reciproca) di qualche parrino per ingraziarsi il potente di turno, ne vogliamo parlare? E su certi uffici pubblici in cui alcuni” non farebbero mai né fila né attese, ci spendiamo una mezza parola?

Il problema, direbbero quelli che hanno studiato, “è culturale”. Nel senso che tutta questa mancanza del senso delle regole ha radici storiche precise, affonda nell’humus delle furberie ataviche di un Sud che spesso si arrampica sugli specchi per sopravvivere. E allora ecco che nulla scandalizza… non le truffe assicurative, non gli spregi edilizi, non i furti alla previdenza. “E mica io sono più fesso degli altri” – è la canzone ricorrente, il mantra del furbetto che in pubblico predica onestà ma che poi vive di espedienti o autentiche irregolarità.

Su questo terreno, fin troppo fertile, crescono le peggiori mala-piante della costa jonica. E troppe cose diventano normali, non generano uno straccio di indignazione vera, duratura. Anche la morte più violenta è solo fonte di curiosità pruriginose e quasi mai di sdegno. Sono poche le voci contro e quasi sempre si fanno sentire più per circostanza che per reale convincimento.

Un incendio doloso, poi dieci, poi cento. Un morto ammazzato, e forse un altro ancora. La matematica del malaffare non conosce freno. La società civile per un istante si infiamma, cerca di sapere e di capire. Poi, silenzio. Zitti i Palazzi, muti gli intellettuali, assente (spesso) lo Stato. Perché qui così vanno le cose, perché questo Sud disarmato siamo noi. Perché alla lunga ci siamo abituati a questa morte lenta.

Così, le tante mafie locali ringraziano. E mentre la Sibaritide sprofonda, boss e colletti bianchi scialano.

3 commenti su “A chi fa bene la mafia”

  1. I veri morti sono i falsi vivi: chi vive di corruzione, chi vive da parassita, chi succhia energie perché ha bisogno della morte dell’animo altrui per nutrire la propria inutile vita. Prof Panio i tuoi articoli sono meritevoli di diffusione

  2. Genitissimo Sig. Emilio Panio, grazie per la chiarezza con cui affronti la crociata del “nulla scandalizza” che è diventata la “normalità” nella nostra comunità. Si auspica solo un sussulto rivoluzionario di profonda umanità in tutti non per sconfiggere le tenebre (è impossibile!),ma per essere luce trasparente nella legalità,nella fraternità e nella libertà, perchè solo quando la vita brilla di luce vera le tenebre svaniscono automaticamente.
    CoriglianoRossano 20.01.2019. Franco Palmisano

  3. La testimonianza del pm anti-camorra Raffaele Cantone nell’aula polifunzionale di via Trieste: una lezione dedicata a chi fa ogni giorno il suo dovere “solo per giustizia”, come recita il titolo del suo libro La lotta alla criminalità organizzata non può essere condotta solo sul piano repressivo. Denunce, indagini e arresti sono fondamentali per minare la struttura organizzativa della mafia, ma non sufficienti per sconfiggerla definitivamente. Per evitare che la piramide gerarchica del sistema abbia una base sempre pi solida e un vertice sempre pi pungente bisogna agire anche su altri fronti. Ne è convinto il pm Raffaele Cantone che lo scorso 3 dicembre ha incontrato gli studenti dell’Università Cattolica di Brescia su invito del Centro Studi per l’Educazione alla Legalità, diretto dal professor Luciano Caimi, in collaborazione con la libreria della sede.

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