La ruspa singhiozza una volta sola e poi si acquieta. Una nuvola grigia soffoca quanto resta della vecchia casa di zia Mariangela. Mia sorella è lì, in mezzo a quelle macerie senza più memoria, a raccattare qualche tegola scampata all’ultimo scempio.
Tra qualche minuto a quel primo singhiozzo ne seguirà un secondo e ci metteremo del tutto alle spalle le molliche della nostra infanzia.
Tutto passa. E spesso finisce. Il vecchio forno del pane ora non esiste più. Un grosso ratto sfida i calcinacci e guadagna la salvezza verso il canale. “Volete che ci passo sopra un’altra volta?” – urla tra i denti chi porta la ruspa. No che non ce n’è bisogno: almeno risparmiamo sul tempo da pagargli. E scappiamo via in fretta, senza pensare troppo a cosa direbbe ora la nonna, se fosse ancora viva.
Noi non siamo contadini. Ci hanno cresciuti per non esserlo. Per noi hanno sognato traguardi cittadini. E noi abbiamo dimenticato in fretta le nostre radici e oggi non siamo nulla. Annamaria ha salvato un paio di tegole: “Ci sono appassionati che le pagano bene, sai?” -ma non mi guarda neppure in faccia mentre me lo dice. Non siamo zolla di questa terra, noi: è una verità che fa male.
La vecchia casa con il forno del pace andava buttata giù. Le sue mura erano allo stremo e si rischiava il peggio. “La terra o la curi o devi dimenticarla”. Noi, i due ultimi eredi di una famiglia contadina come tante, non vediamo l’ora di fuggire da quest’argilla dai troppi ricordi agrodolci. “Anticipo io con il ruspista e poi facciamo i conti tra di noi?”: faccio un cenno d’assenso con il capo e amen.
Ci sta un cammino di gramigna alle spalle della vecchia “cibbia”. Io, che a casa mia ho terrore finanche d’un mezzo scarafaggio nel corridoio, già tremo al pensiero dei mostri striscianti in cui potrei imbattermi qui. “Vai avanti, sono loro che hanno paura di te: tu sei grosso e loro zinn”. Sorrido ricordando le parole di mia nonna: ora, se fosse qui, donna Maddalena avrebbe un passo più veloce del mio.
Dietro la casa degli anni ‘70, a sfidare la frana che scivola sui sogni di chi non ci sta più, la collina è prima un’erta malvagia e quindi una carezza che sfida il vento del tardo pomeriggio di giugno. Un manto di spighe selvatiche miste a rovi regna sovrano adesso: un tempo no, qui i nostri vecchi coltivavano i piselli. A noi nipoti piaceva succhiare la buccia di quelle virgole verdi.
A quel tempo ci sentivamo immortali, chi ci pensava ai predicozzi quotidiani sull’igiene, sull’obbligo di lavare ogni cibo per non rischiare qualche brutta sorpresa? Strappavano quei baccelli e neppure perdevamo troppo tempo a ripulirli dalla carezza della terra: un istante bastava e poi succhiavamo il loro succo dolce, preferendolo a qualsiasi caramella possibile. Ed era bello così.
Sono solo sulla collina della mia infanzia. Resto in piedi mentre il tramonto si addensa alle mie spalle. Soffro di vertigini ma adesso me ne sto dimenticando: fisso l’orizzonte e immagino che spiagge possano esistere alla fine del mio Jonio, lì dove si parla tarantino o ancora oltre, in terra d’Albania. Forse è l’ultima volta che salgo quassù, domani ci tocca il primo incontro dal notaio. Addio infanzia.Zia Mariangela controlla che ci siano tutte le galline nell’orto. Mia nonna entra nella vecchia casa per cambiarsi ché si torna a casa. Zizì continua a combattere il più inutile dei duelli contro la polvere che bussa alla porta della casa degli anni ‘70. Guardo oltre la curva d’asfalto e aspetto che arrivi il “Si” di Annamaria. “Oi, scendi che si fa scuro e poi non si vede la strada”. Sì, scendo.
La cicala torna a cantare nel canale. Le stelle sconfiggono la loro pigrizia millenaria e si accendono. Il vento si trascina sui rami del pino che sta cedendo alla frana. La terra la devi curare, se no muore. Funziona così pure con i ricordi. E con il destino. Con la vita. Tutto finisce, ora che sono vecchio pure io lo so bene. Tutto passa: e già sono lontano, protetto dai cristalli della mia utilitaria a gas.
Una giungla di neon e clacson è ora, di nuovo, la mia vita. Sono tornato, al diavolo la gramigna. Una doccia ci vuole, appena a casa. Acqua ghiacciata, divano, la Tv che mi reciterà la sua solita ninna nanna. Domani si firma dal notaio e addio a ogni altro fastidio: non siamo gente da campagna, io e mia sorella. Alzo il volume dell’autoradio, mi rituffo nelle mie confortanti abitudini.
Tutto passa.
- Premio Nazionale Letterario “Davide Aino / Memorie a Broglio”.Primo Classificato Sezione Narrativa, Trebisacce, 30 Luglio 2016
(31 luglio 2016 – facebook)